VITTORE GHISLANDI
(Bergamo 1665 – 1743)
Ritratto di giovane detto l’Allegrezza
ante 1720
olio su tela
112×89 cm
Museo Poldi Pezzoli, Milano
OPERA
Il giovane indossa un cappello nero dall’ampia tesa rotonda, ornato di piume, una camicia bianca slacciata, una giubba rossa legata da una cintura blu. Un mantello giallo bruno pare essere appena scivolato dalle sue spalle. La luce si riflette sulla borchia del cappello, sull’orecchino di perla, sulla pesante catena d’oro, sul vetro della bottiglia di vino dietro a cui traspare il bianco della manica della camicia.
Il ritratto è noto come l’Allegrezza, grazie alla composizione in versi di un abate, Giovan Battista Angelini, che l’aveva attentamente descritto: «… Un quadro d’una tal bellezza / Che in esso v’è l’essenza del pittore. / Intese far l’idea dell’Allegrezza / In sì leggiadra, e gaia positura / Che li si vede in faccia la baldezza». L’abate aveva incominciato a scrivere il suo poema nel 1720, quindi sappiamo che l’opera fu dipinta prima di quella data.
Ghislandi realizzò alcuni ritratti di fanciulli utilizzando evidentemente uno stesso modello reinterpretato di volta in volta, a metà tra veri e propri ritratti e ritratti di genere. L’artista, che si chiamava Giuseppe, divenne frate giovanissimo con il nome di Fra’ Vittore, e a un certo punto della sua vita si trasferì nel convento bergamasco del Galgario, da cui il soprannome con il quale è conosciuto.
BIOGRAFIA
Vittore Ghislandi, detto Fra Galgario, nacque a Bergamo nel marzo 1655. Fu battezzato Giuseppe dal padre, pittore di prospettive e paesaggi, e diventerà Vittore quando si fece frate laico nel convento di San Francesco di Paola a Venezia nel 1675. Qui studiò le opere di Tiziano e Veronese e collaborò con il pittore friulano Sebastiano Bombelli. Nel 1701 decise di tornare a Bergamo dove ebbe importanti commissioni per ritratti dall’aristocrazia locale. Dagli anni Venti iniziò a dipingere ritratti definiti dai contemporanei capricciosi, in cui i personaggi indossavano abiti inconsueti e orientaleggianti. La sua opera fu richiesta anche fuori Bergamo e all’estero, specialmente le sue “teste di carattere”, in genere ragazzi, spesso abbigliati con turbanti e sciarpe colorate.
Negli ultimi anni della sua vita, poiché la mano gli tremava, abbandonò il pennello per dipingere solo con le dita. Il pittore morì a Bergamo nel convento del Galgario, da cui prese il suo soprannome, nel dicembre 1743.